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Bilancio di sostenibilità: il greenwashing certificato.
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Benvenuto/a nella mia guida alternativa sul Bilancio di Sostenibilità, uno degli strumenti più osannati e, al tempo stesso, più fraintesi del panorama aziendale contemporaneo.
Viviamo in un’epoca in cui ogni azienda sente il bisogno di dimostrare (non di essere) sostenibile.
Così il bilancio di sostenibilità diventa il cavallo di Troia perfetto: misurare impatti, stilare grafici, dichiarare obiettivi ESG, senza mai mettere in discussione il modello produttivo che li ha generati.
Perché diciamolo chiaramente: raccogliere dati ambientali o sociali non è sinonimo di cambiamento sistemico.
In questa guida non troverai tecnicismi rassicuranti o standard internazionali da seguire come una checklist. Troverai invece una critica radicale, ma necessaria: quella che il bilancio di sostenibilità, così come viene concepito oggi, è spesso l’ennesimo strumento di greenwashing certificato. Serve più a rassicurare gli stakeholder che a trasformare davvero l’impatto di un’impresa.
Per questo, nelle prossime sezioni, decostruiremo punto per punto il mito della rendicontazione come garanzia di sostenibilità, analizzeremo le metriche ESG, e ci chiederemo: una vera transizione può davvero essere guidata da chi misura il mondo con le stesse logiche che lo hanno distrutto?
Bilancio di sostenibilità: cos'è davvero?
In teoria, il bilancio di sostenibilità dovrebbe essere lo strumento attraverso cui un’azienda comunica le proprie performance ambientali, sociali e di governance.
In pratica, è sempre più spesso un documento di auto-narrazione strategica, utile a conquistare la fiducia degli stakeholder e a presidiare mercati sensibili al “green”.
Il linguaggio è impeccabile: impatto ambientale, diritti umani, lavoro equo, governance etica (che oltretutto non significa nulla essendo l'etica la branca della filosofia che studia la morale).
Ma la domanda che ci si dovrebbe fare è un’altra: tutto questo rende davvero un’azienda sostenibile?
Misurare non equivale a trasformare.
Raccogliere dati, impacchettarli con un design gradevole e appoggiarli su una narrazione rassicurante non cambia la struttura sistemica di un’azienda.
Anzi, il bilancio di sostenibilità, se non inserito in un vero processo rigenerativo e trasformativo, diventa una perfetta operazione di legittimazione simbolica: si dà un’immagine di sé conforme alle aspettative, si sedano i dubbi dal punto di vista etico, si conquista fiducia sul mercato… ma l’organizzazione interna, le logiche produttive, la cultura aziendale restano esattamente le stesse.
È una strategia comunicativa, non una rivoluzione strutturale.
Quindi no: un’azienda non è sostenibile perché pubblica un report annuale.
Un’azienda è sostenibile se trasforma radicalmente i propri obiettivi, le proprie interconnessioni sistemiche e il proprio impatto reale.
Tutto il resto è cosmetica.
Il bilancio di sostenibilità è obbligatorio?
Sì, oggi il bilancio di sostenibilità è (o meglio, sta diventando) obbligatorio per un numero crescente di imprese, soprattutto a seguito della direttiva europea CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive).
La CSRD prevede una rendicontazione progressiva: dal 2025 coinvolgerà le grandi aziende (oltre 250 dipendenti, 40 milioni di fatturato o 20 milioni di attivo), poi dal 2026 allargherà il campo alle imprese madri di grandi gruppi, nel 2027 alle PMI quotate, fino ad arrivare nel 2029 anche ad alcune aziende extra-UE con attività rilevanti in Europa.
In Italia saranno direttamente coinvolte circa 8.000 imprese, ma molte altre, anche più piccole, saranno indirettamente obbligate a conformarsi, perché parte delle catene di fornitura.
Ma la vera domanda è: basta un obbligo normativo per rendere un’azienda davvero sostenibile?
La mia risposta è no.
Perché rendicontare non significa trasformare.
Il bilancio di sostenibilità, in questo quadro, rischia di diventare solo un documento di compliance, un esercizio narrativo che permette alle aziende di dichiarare sostenibilità, senza viverla davvero.
Un’operazione che ha il solo scopo di mantenere la fiducia degli stakeholder e la legittimità sul mercato, non di mettere in discussione le cause sistemiche dell’insostenibilità.
L’intento dichiarato è virtuoso.
Ma l’effetto sistemico, se osserviamo le cose da una prospettiva complessa è omeostatico, non evolutivo.
Cioè: il sistema si adatta per continuare a sopravvivere così com’è.
Anche a costo di simulare un cambiamento che in realtà non arriva mai.
Ricorda sempre questa cosa: La sostenibilità è uno stato dei sistemi complessi che avviene in determinate condizioni.
Per approfondire, leggi l'articolo dedicato: Cos’è davvero la sostenibilità?
Se capisci bene di cosa si tratta, allora sei ti apparirà lampante anche che il capitalismo è il più grande limite alla sostenibilità stessa.
In un modello economico e sociale che punta esclusivamente al profitto la sostenibilità è un limite, a meno che essa non diventi parte stessa dell'obiettivo.
A meno che essa non aiuti l'azienda a fare ancora più profitto.
Figo vero?
Cosa sono i GRI standard ?
Gli standard GRI (Global Reporting Initiative) sono oggi tra i principali riferimenti internazionali per la redazione dei bilanci di sostenibilità.
Forniscono un insieme di linee guida per aiutare le imprese a rendicontare in modo “trasparente, comparabile e standardizzato” le proprie performance ambientali, sociali e di governance (ESG).
In altre parole: definiscono cosa raccontare e come raccontarlo.
A prima vista sembrano uno strumento virtuoso, e in parte lo sono anche.
Senza un linguaggio comune, la rendicontazione diventerebbe arbitraria, difficilmente confrontabile e quindi poco utile.
Ma fermiamoci un momento.
Standardizzare la sostenibilità è davvero un’operazione neutra?
O rischia, invece, di diventare una gabbia epistemologica?
Perché nel momento in cui si decide cosa misurare, si sta anche decidendo cosa escludere.
Gli standard GRI, come tutti gli strumenti normativi, sono figli del contesto in cui sono nati: un sistema economico centrato sul profitto, sulla competizione e sull’efficienza tecnica, non certo sulla rigenerazione, sull’equità profonda o sul cambiamento culturale.
È evidente come questi standard non nascano dalle necessità delle piccole imprese o dei contesti locali.
Una piccola azienda, una realtà artigianale, una cooperativa territoriale, non ha una complessità entropica paragonabile a quella di una multinazionale. Non muove miliardi di euro, non ha supply chain globali, non emette centinaia di migliaia di tonnellate di CO₂.
E allora la domanda sorge spontanea: per chi sono stati pensati, davvero, questi strumenti?
La risposta è semplice: per le grandi aziende, per le multinazionali.
Sono loro a generare la maggiore complessità operativa, le maggiori esternalità ambientali e sociali, e guarda caso, sono anche quelle con i capitali per investire nella narrazione della sostenibilità.
Il bilancio di sostenibilità, standard GRI compresi, diventa così uno strumento di "legittimazione", costruito su misura per chi ha più da farsi perdonare.
Non per chi ha davvero bisogno di strumenti trasformativi.
Ecco perché parlare di “democratizzazione della sostenibilità” attraverso questi strumenti suona spesso come una forzatura.
Non stiamo offrendo strumenti ai più piccoli, stiamo obbligando i più piccoli ad adeguarsi alle metriche dei grandi.
E allora il rischio è evidente: usare gli standard GRI per raccontare sostenibilità, ma rimanere all’interno di un modello profondamente insostenibile.
Misurare le emissioni per diminuirle ma non per mettere in discussione il modello produttivo che le genera.
Raccontare la diversità ma mantenere intatte le strutture di potere.
Dichiarare impegni sociali senza agire sulle disuguaglianze sistemiche.
Ecco perché, se non cambiamo il paradigma sottostante, anche gli strumenti più raffinati finiscono per diventare solo un linguaggio elegante dell’adattamento.
Una forma di greenwashing strutturale.
Se vuoi approfondire il tema ecco un articolo che potrebbe piacerti: Perché la Green Economy non è un modello sostenibile.
In cosa sono differenti dagli standard ESRS?
A livello europeo, il compito di definire uno standard unico di rendicontazione per la sostenibilità è stato affidato all’EFRAG (European Financial Reporting Advisory Group), che ha recentemente pubblicato gli standard ESRS (European Sustainability Reporting Standards).
Questi standard saranno obbligatori per tutte le aziende soggette alla direttiva CSRD, e rappresentano lo strumento attraverso cui l’Unione Europea vuole garantire che tutte le imprese riportino informazioni comparabili e uniformi.
L’obiettivo dichiarato è chiaro: evitare che ogni azienda utilizzi standard volontari diversi (GRI, SASB, TCFD, ecc.) creando incoerenze nei dati e rendendo difficile il confronto.
Ma anche qui, dobbiamo porci una domanda sistemica.
Uniformare la rendicontazione è davvero un atto di trasparenza… o è un atto di controllo?
Gli ESRS non nascono come strumenti per rendere più sostenibili le imprese.
Nascono per rendere comparabili i dati.
Per semplificare le decisioni degli investitori.
Per garantire stabilità ai mercati finanziari in un contesto in cui la parola “sostenibilità” è diventata, prima di tutto, un asset economico.
Non c’è nulla di male nel voler fare chiarezza.
Ma se la chiarezza serve solo a far scorrere più rapidamente i flussi di capitale, siamo davvero di fronte a un cambiamento?
O stiamo solo riprogrammando il capitalismo in chiave sostenibile, senza mettere in discussione le sue fondamenta?
Dal punto di vista tecnico, gli ESRS si suddividono in due categorie:
-
Cross-cutting standards, che riguardano informazioni trasversali e non legate a un tema specifico di sostenibilità.
-
Topic-specific cross-sector standards, che coprono i 10 ambiti principali legati all’ambiente, al sociale e alla governance (ESG).
Un’architettura sofisticata, senza dubbio.
Ma attenzione: sofisticazione non significa trasformazione.
L’intero impianto degli ESRS, per quanto aggiornato e ambizioso, continua a muoversi all’interno di una logica aziendalista, performativa, numerica, che premia chi sa scrivere meglio i propri report — non chi cambia davvero modello.
E chi non ha le risorse per stare al passo, come piccole imprese, realtà locali, reti di economia trasformativa?
Deve semplicemente adeguarsi, oppure uscire dal gioco.
Gli standard ESRS, come quelli GRI, sono strumenti pensati per rendere il sistema attuale più performante, non per immaginarne uno nuovo.
Tenere aggiornato il report di sostenibilità.
Uno dei mantra più ricorrenti nella rendicontazione ESG è la necessità di aggiornare periodicamente il report di sostenibilità.
In teoria, questo dovrebbe servire a monitorare i progressi, correggere le rotte, rispondere alle richieste degli stakeholder.
Secondo un sondaggio condotto da PwC Global Consumer Insights Pulse Survey (2021), l’83% dei consumatori ritiene che le aziende dovrebbero promuovere attivamente le migliori pratiche ESG, e il 76% dichiara che smetterebbe di acquistare da imprese che trattano male dipendenti, comunità o ambiente.
Tutto questo sembrerebbe indicare un forte bisogno di trasparenza e responsabilità.
Ma a cosa serve aggiornare continuamente un documento, se ciò che viene raccontato non corrisponde a un cambiamento reale?
Se la sostenibilità è solo ciò che un’azienda riesce a scrivere in un documento, aggiornare il report significa aggiornare una narrazione.
Non necessariamente una trasformazione reale.
Il rischio è evidente: si finisce per misurare i progressi della sostenibilità solo nei parametri che l’azienda stessa ha deciso, ignorando ciò che davvero conta per il sistema vivente in cui è immersa.
Aggiornare un report ogni anno non ha senso se i parametri restano scollegati dalla realtà sistemica.
Nessun foglio Excel potrà mai dire se un’azienda è realmente sostenibile.
Solo la resilienza complessiva del territorio, della biosfera, delle comunità può dirci se un’attività è davvero rigenerativa.
Tutto il resto è mantenimento di legittimità nel mercato.
Non è un caso che anche aziende che si occupano di “biodiversità” abbiano costruito strumenti di reportistica che servono più a raccontare bene che a cambiare bene.
La vera trasformazione non avviene attraverso un aggiornamento periodico dei dati.
Avviene quando cambia la visione del mondo di chi guida l’impresa.
E questo, purtroppo, non lo si può allegare in PDF.
Comunicare il Bilancio di Sostenibilità.
Sì, oggi “comunicare” la sostenibilità è diventato fondamentale.
Ma per chi?
Per gli stakeholder?
O per proteggere la legittimità sociale dell’azienda, in un sistema che ha bisogno di apparire trasformativo… senza mai cambiare davvero?
Sempre più aziende pubblicano report, storytelling, infografiche che mostrano percorsi, obiettivi, sfide.
Ma tutto questo, se inserito in una logica estrattiva, resta marketing.
Anche la trasparenza, in questo contesto, può diventare greenwashing.
Solo più sofisticato.
Basta leggere il report della Commissione Europea del 2020, secondo cui il 53% dei claim ambientali analizzati era vago, ingannevole o infondato.
E il 40% privo di qualunque fondamento verificabile.
Perché succede?
Perché comunicare bene è diventato più importante che trasformare davvero.
Il rischio è che la sostenibilità diventi un’estetica.
Una narrazione ben scritta, emotiva, in linea con le attese del pubblico… ma completamente disancorata dalla sostanza.
Una vera comunicazione sostenibile dovrebbe mostrare non solo i successi, ma le contraddizioni, le rinunce, i fallimenti e i dilemmi.
E soprattutto dovrebbe nascere da un sistema che ha cambiato funzione.
Perché finché lo scopo dell’azienda resta il profitto, anche la trasparenza diventa funzionale a quel fine.
E se la trasparenza è funzionale al profitto, allora non è trasparenza: è strategia di vendita.
Bilancio di sostenibilità: quali sono davvero i vantaggi?
Il bilancio di sostenibilità viene spesso presentato come uno strumento chiave per rafforzare la reputazione aziendale, rispondere ai requisiti normativi e attrarre nuovi investimenti.
E su questo, nulla da eccepire: formalmente, è proprio così.
Ma la domanda cruciale è un’altra: questi vantaggi sono davvero indice di trasformazione sistemica?
O rappresentano semplicemente un adattamento strategico dell’impresa ai nuovi trend di mercato?
In un contesto dove la rendicontazione ESG è sempre più richiesta, dagli stakeholder, dal mercato, dalle istituzioni finanziarie, il bilancio di sostenibilità rischia di diventare una leva di marketing mascherata da impegno etico.
Uno strumento per dichiarare sostenibilità, più che per viverla davvero.
Il problema, ancora una volta, è sistemico:
-
Se il fine resta il profitto, ogni azione “sostenibile” sarà giustificata solo se genera ritorno economico.
-
Se la sostenibilità non è integrata nella cultura e nelle decisioni quotidiane dell’impresa, ma solo esibita in un documento PDF, allora il bilancio di sostenibilità è solo l’ennesima operazione di facciata.
Il vero vantaggio non è avere un bilancio ben fatto.
Il vero vantaggio sarebbe mettere in discussione il modello aziendale dominante, ridefinire gli obiettivi dell’impresa, accettare il fatto che alcune attività economiche, per quanto redditizie, non possono più essere considerate legittime in un mondo in collasso.
E questo, un file con dentro qualche dato ESG, non lo farà mai.
Siamo arrivati alla fine di questo viaggio, e forse ti starai chiedendo: quindi dobbiamo buttare via tutto?
Anche il bilancio di sostenibilità?
No.
Ma dobbiamo guardarlo per quello che è: uno strumento, che può essere usato per trasformare davvero o per mascherare l’inerzia.
Il problema non è il bilancio.
Il problema è l’uso che ne fa un sistema che ha reso il profitto il suo unico Dio.
Per questo oggi il bilancio di sostenibilità è diventato la nuova bibbia del greenwashing istituzionalizzato: un documento patinato che racconta la storia che vogliamo sentirci dire, mentre il mondo brucia, le disuguaglianze esplodono e la biodiversità collassa.
Ma una storia ben scritta non salverà nessuno.
La trasformazione non si misura in tabelle, non si dichiara in un PDF, non si certifica con uno standard.
La trasformazione si vive, la si sente integrata dentro se stessi, si assume come responsabilità collettiva.
Richiede coraggio, rinuncia, visione.
E, soprattutto, una nuova visione del sistema.
Se vuoi davvero fare sostenibilità, smetti di inseguire KPI e inizia a creare business utilizzando altri modelli di sviluppo.
Porta avanti la tua visione del mondo con i tuoi valori.
Perché il futuro non si bilancia.
Il futuro o si trasforma, o si estingue.
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Per uscire dalla crisi climatica stiamo utilizzando gli stessi modelli e valori che l'hanno creata. Non te lo sentirai dire spesso ma un business non esiste per vendere. Un business esiste per dare alle persone gli strumenti necessari ad essere davvero felici. La vendita, come l'equilibrio del pianeta, sono solo dirette conseguenze di questo comportamento.